Pubblicato da: zoris | 09/07/2023

Il naufragio di Ulisse

Il professor Mauro Bonazzi ha pubblicato un interessante libro (Il naufragio di Ulisse, Einaudi) nel quale mette a confronto il temerario viaggio di Ulisse, come raccontato nel XXVI canto dell’Inferno, e quello di Dante che culmina nel Paradiso al cospetto di Dio.

Malgrado l’esito infausto del viaggio, Dante non condanna Ulisse per aver voluto oltrepassare le colonne d’Ercole: egli era comunque stato spinto dal desiderio di seguir virtute e canoscenza.

Del resto Dante inizia il suo Convivio facendo sua la felice intuizione di Aristotele: tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. Anche Cicerone, osserva Bonazzi, nel trattato Sui fini del bene e del male fa sua la tesi di Aristotele nell’Etica nicomachea che solo attraverso la conoscenza si può raggiungere la felicità.

Ma è giusto o no porre dei limiti alla ricerca della conoscenza? Sembrerebbe che il sommo poeta accetti, da credente, che la nostra ragione debba fermarsi davanti al mistero della fede.

Ma io ne dubito. Vediamo l’episodio in cui Dante non vede l’ombra di Virgilio (quand’io vidi/solo dinanzi a me la terra oscura, Purg. III, 20-21): il poeta vorrebbe la spiegazione del fenomeno ma Virgilio fa il teologo e lo ammonisce (Purg. III, 34-39):

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;

ché, se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria.

Sembrerebbe che Dante accetti che vengano posti limiti al desiderio di conoscenza. Ma è proprio così? Queste frasi Dante le fa dire da Virgilio e poi osserva che alla fine del discorso il suo maestro rimase turbato. Ma forse era lo stesso Dante a essere turbato perché non del tutto convinto: desiderava una spiegazione e si è ritrovato con un sermone catechistico.

Anche in seguito (Purg. VI, 28-48) Dante è dubbioso in merito alla dottrina dell’efficacia delle preghiere di suffragio e ricorda quanto il suo maestro aveva scritto: Abbandona la speranza di piegare i decreti degli dei con le preghiere (Eneide, VI, 376). Virgilio gli spiega la dottrina del suffragio, ma Dante non mi sembra convinto: egli capisce che indirettamente tale dottrina mette in dubbio la giustizia divina, perché Dio valuterebbe le raccomandazioni più che il merito (v. anche Purg. III, 145: ché qui per quei di là molto s’avanza).

Dante era credente, ma un credente pensante e quindi aperto al dubbio.

Come ha detto il cardinale Martini: la differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.

E torniamo ora al dilemma: È giusto o no porre limiti alla ricerca della conoscenza? E chi deciderà cosa sia bene e cosa sia male?

Affidarci alle religioni non sembra abbia dato buoni risultati: l’Inquisizione ha minacciato il rogo a Galileo se egli non avesse abiurato le proprie idee.

Oggi forse saremmo più contenti se non fossero state inventate le armi nucleari, e rischiamo di andare incontro, come Ulisse, alla catastrofe. Ma c’è chi sostiene che senza la bomba atomica durante la guerra fredda sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale.

Se non ho capito male mi sembra che Bonazzi a questi dilemmi risponda che siamo noi a doverci assumere la responsabilità di decidere cosa sia bene e cosa sia male: l’etica ci salverà se sapremo ritrovare in noi l’animale razionale e l’animale politico di aristotelica memoria.

Tuttavia guardando le aberrazioni del presente, con queste nuove stragi di bambini innocenti dopo quella di erodiana memoria rimango sconsolato e non resta che rispecchiarmi (si parva licet…) nelle parole di Goethe: habe… Philosophie… und leider auch Theologie durchaus studiert… ich armer Tor, und bin so klug als wie zuvor (ho studiato filosofia e purtroppo anche teologia da capo a fondo, io povero pazzo, e ora ne so quanto prima).


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